Ritrovarmi a fare il mestiere del documentarista, che si basa per lo più sulla rappresentazione dell'immagine, è senz'altro un prodromo sicuro di una condizione che è intrinsecamente abbastanza frustrante. Il documentario vuole essere uno strumento per far vedere la realtà che si vede, per me tuttavia non è questo tipo di realtà quella che mi attrae maggiormente.
La prendo, appunto, come una sfida. In fondo l'Arte, quella con la A maiuscola, ha sempre cercato di esprimere qualcosa che può essere solo indicato ma mai dichiaratamente rappresentato.
Da qui il mio interesse per il documentario d'arte, cioè quello che parla di artisti che hanno lavorato specialmente con l'espressione della dimensione invisibile.
Il nano può vedere forse ancora più in là del gigante, se gli salta in groppa per sistemarsi sulle sue possenti spalle.
La Luce dell'Invisibile, titolo di questo blog, che ho ripreso dal titolo che diedi al documentario che feci nel 2004 sulla biografia artistica di Mimmo Jodice, vuole interpretare proprio questo concetto. Il grande fotografo napoletano da trent'anni viaggia proprio su questa sua ricerca di rivelare, attraverso l'immagine, quella dimensione che non è di questo mondo, ma si colloca in una sfera archetipica, mitica, non ordinaria. Chimiamola come vogliamo, ma il sottotitolo di quel documentario rende bene l'idea: Lo Sguardo altrove di Mimmo Jodice.
Filmare l'invisibile è anche un grande tema affrontato da notevoli autori che hanno lavorato nel cinema. Per fare due esempi che a me stanno molto a cuore, visto che ho sempre amato il loro lavoro, potrei citare Wim Wenders che parla spesso di questo aspetto. E, evidentemente, non si tratta solo della capacità di rappresentare un profumo, cosa comunque assai redditizia se si presta il proprio lavoro al campo della pubblicità.
Un altro esempio è Joris Evans e quel capolavoro realizzato nei suoli ultimissimi anni, in cui vuole filmare il vento, durante quel viaggio straordinario compiuto in Cina per il suo film Io e il Vento. Tra l'altro, qui la sua intenzione non è solo quella di inseguire il vento del deserto dei Gobi, ma anche, e forse soprattutto, trattare implicitamente anche la propria dimensione dell'Io, altra grande parte dell'invisibile ordinario.
A prescindere comunque dagli esercizi di stile compiuti o da compiere per estendere le possibilità narrative del linguaggio cinematografico, resta il semplice fatto banale, da parte mia, di voler parlare attaverso un mezzo di comunicazione audiovisivo come il documentario, proprio degli elementi non percepibili sensorialmente, e che caratterizzano in qualche modo quella dimensione comunemente intesa come lo spirituale.
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