Il seguente è un articolo, tratto dal soggetto, per approfondire la presentazione del documentario sulle pagine di BlogTaormina.
Storia di Bali
L'arcipelago indonesiano costituisce la più grande nazione
islamica del mondo, composto da oltre 17.000 isole. Bali è l'unica con una
cultura prevalentemente induista.
L'Indonesia rimase essenzialmente sotto l'influenza induista di
Java fino al XV secolo. Quando l'Islam si insediò a Java, il regno dei
Majapahit si dissolse e molti uomini di cultura si trasferirono a Bali: tra
questi molti sacerdoti che si ritiene siano stati gli iniziatori dei complessi
rituali della religione balinese. Anche gli artisti, i danzatori e i musicisti
giavanesi cercarono rifugio a Bali e l'isola visse da allora un intenso periodo
di fervente attività culturale che perdura fino ad oggi.
Bali è la sede di una cultura armoniosamente sincretica che, su un fondo fortemente intriso dai colori della cosmologia indiana, trae ispirazione dal contatto avuto in passato con la filosofia taoista cinese e oggi con la cultura islamica ed occidentale. Una sintesi creativa di antico e moderno.
E' chiamata L'isola degli Dei,
l'isola dell'energia divina. Ha tre vulcani attivi; il più alto, Monte Agung, si dice sia la residenza del dio supremo, Shiva. Accade molto spesso ancora oggi di assistere a qualcuna delle numerose processioni che si tengono quasi quotidianamente a Bali, in cui persone vestite con abiti multicolori, al suono di caratteristici strumenti a percussione, portano con semplicità e devozione un trono, disposto sopra ad un'apposita portantina. Il trono è vuoto, ma i fedeli credono fermamente che vi sia assiso uno dei loro dei, invisibile ai mortali, al quale vengono offerti doni vari, frutta e altri prodotti della terra.
Dunque il Dio vero è invisibile; la sostanza reale che mantiene lo spettacolo della vita non si può vedere attraverso gli occhi fisici, perché nel mondo della materia tutto è apparenza, falsità ed illusione. Tutto passa e si trasforma in qualcosa di nuovo. Niente è stabile, ma tutto si muove sostenuto dall'eterna danza della divinità.
Proprio per questo a Bali è così importante il culto
dell'apparenza e della bellezza: ci sono alcune forme e determinati simboli che, pur manifestandosi
nell'illusione visibile, rimandano direttamente al divino. La superba arte dei
balinesi di miscelare colori e materiali traspare per esempio dal maquillage
curatissimo che trasforma, durante i giorni di cerimonia, i visi delle donne in
autentiche maschere mitiche.
Comprendiamo allora perché il volto paradisiaco delle danzatrici
sacre nel teatro delle maschere, come anche il teatro delle ombre che rimanda
direttamente alla versione drammaturgica del nostro mito della caverna platonica,
sono due delle forme d'arte più allusive di una realtà metafisica che nella
quotidianità a Bali è sempre presente.
E tra antico e moderno la sensibilità balinese per l'estetica
attraversa i recinti ritualistici tradizionali per sconfinare nell'estetismo
lussuoso, decadente e globalizzato, dei fashion party, dove, sui tappeti sonori
creati dai dj del momento, le sfilate di moda sono l'ultima occasione per dare
libero sfogo alle volute del serpente tentatore. Nel movimento cosmico del Tao,
ying e yang, pieno e vuoto, visibile e invisibile, denaro e ispirazione, droghe
e meditazione, la materia e lo spirito, si incontrano nel caos orgiastico dei
rituali catartici attuali.
Grazie alla loro particolare sensibilità alla forma, alla sua
contemporanea pienezza e vuotezza di senso, è difficile coinvolgere veramente i
Balinesi nello spettacolo mass-mediale messo in scena a livello globale di una
guerra contro il terrorismo islamico. Cioè, è difficile coinvolgere Bali in una
guerra di religione: proprio laddove le differenti e numerose influenze
culturali, che si sono succeduto lungo il corso della sua lunga storia, hanno
trovato sempre una sintesi armoniosa, arricchendosi anzi, reciprocamente.
E' improbabile, dunque, che i gruppi islamici autoctoni
più estremisti siano direttamente coinvolti nelle stragi delle bombe del 2002 e
2005. Lo conferma lo stesso leader carismatico della Jemaah Islamiyah, studioso
di fama che gode di grande rispetto e considerazione anche ai livelli più alti
della compagine di governo. Messo il 18 ottobre 2005 sotto torchio dalla
polizia, Abu Bakar Baasyir crea
un grande imbarazzo nelle autorità
indonesiane perché egli sostiene che ad organizzare l'attentato di Bali
siano stati i Servizi americani, e la maggioranza dell'opinione pubblica
indonesiana gli dà ragione.
In
ogni caso oggi posso dire che è stato qualcosa che ha avuto a che fare
con influenze esterne, in particolare, con il mondo della finanza
globale. Dopo la crisi dovuta alle bombe è stato messo in crisi il
turismo, e molte attività sono fallite, soprattutto quelle autoctone, e
vendute a prezzi stracciati a chi ne ha saputo approfittare. Dopo di
allora il turismo e la politica immobiliare a Bali è schizzata
all'impennata. E' stata recentemente inoltre messa al centro
dell'attenzione globale e pompata ulteriormente dal colosso
imprenditoriale che si è mosso con il libro, diventato poi film, "Eat
Pray Love" con Jodie Foster, che è stato in buona parte girato a Bali.
L'arte di Bali
Quanti doni riceve Bali dalla natura! Gli abitanti dell’isola lo
sanno bene, ringraziano con riti e feste e ne traggono profitto come meglio
credono. Vulcani come giardini e rive come risaie. Tutto è scandito dai ritmi e
dai credi religiosi, perché la religione a Bali è un disegno di vita.
L’ispirazione naturale e il grande talento artistico dei balinesi non potrebbe
essere spiegato altrimenti: un incredibile dono, come l’isola tutta, venuto dal
cielo. Bali stessa dunque è una continua fonte di ispirazione. Qui c'è
l'energia giusta per essere creativi.
Già dalla fine dell’Ottocento, l’entusiasmo dei nostri
impressionisti da Toulose Lautrec a Degas a Van Gogh per le stampe giapponesi
aveva generato una vera e propria febbre per tutto ciò che avesse a che fare
con l’Oriente; per esempio le flessuose figure del tempio di Borobudur a Java
avevano colpito l’immaginazione del nostro Gauguin. Dai primi del Novecento,
Bali viene eletta da alcuni artisti occidentali a culla della loro attività
creativa.
La fama attuale della cittadina di Ubud per l'arte risale
all'arrivo di due pittori, il tedesco Walter Spies e l'olandese Rudolf Bonnet.
Insieme all'artista indonesiano Gede Agung Sukawati, essi crearono il Pita maha
Group che incoraggiava gli artisti balinesi ad essere più espressivi e meno
vincolati dai confini posti dalla tradizione. Da allora, Ubud è divenuta il
cuore pulsante delle nuove correnti artistiche dell’isola, correnti che
risultano dall’unione di creatività occidentale e genio orientale.
La maggioranza degli artisti occidentali residenti a Bali
infatti vive ad Ubud. E’ qui che si trova la più alta densità di gallerie
d’arte, studi e atelier. Mentre il resto dell’isola rimane strutturato secondo
schemi secolari per cui ogni città è specializzata nella produzione di
qualcosa, mobili, ferro battuto, sculture tradizionali in pietra e in legno,
tessuti, Ubud si presenta come il reale punto di incontro delle menti creative
di almeno tre civiltà: l'induista, l'occidentale e l'islamica. Quanto
attualmente quest'ultima stia tentando di assorbire Bali nella sua sfera di
influenza artistica e politica, è parte di quanto intendiamo verificare sul
campo attraverso la realizzazione di questo documentario.
Il crogiuolo artistico balinese conserva al suo interno forme
d'arte vaste e complesse la cui particolarità sta nell’aver raggiunto un
livello di qualità tale da influenzare in modo deciso e silente una gran parte
del mercato mondiale. Saranno allora i valori del mercato a stabilire con più
forza i canoni della creatività di Bali? Anche questo sarà da appurare in loco.
La fonte balinese
Nella lingua locale non c’è una parola che significhi arte,
perché a Bali tutto è arte. Particolarmente a Ubud, il villaggio circondato
dalle risaie dove l’anima balinese ha conquistato quella occidentale. I ragazzi
dell’isola vanno a Ubud per imparare i segreti del gamelan, la musica che
Debussy definiva: “una scintillante pioggia d’argento”. Gong, cimbali,
xilofoni: anche 15 variazioni della stessa melodia, sovrapposte, eseguite a orecchio
senza direttore o spartito.
Fino a 15 anni fa non c’era neanche la luce, ma Ubud era già il
cuore artistico dell’isola, dove i contadini si ritrovavano la sera per
dipingere i loro sogni. Negli anni Trenta giungevano qui i piroscafi carichi di
archeologi, antropologi, ballerini e pittori. Gli artisti occidentali
imparavano la tecnica del batik, mettevano su casa tra le risaie. Nel 1927
arrivò per fermarsi 11 anni il musicista e pittore tedesco Walter Spies, il
Gauguin balinese. Mentre il palazzo dell’ultimo rajah di Ubud ospitava
personaggi come la regina Elisabetta e Ho Chi Minh, Robert Kennedy e Marlon
Brando.
La pubblicazione negli anni ’30 del romanzo Una casa a
Bali di Colin McPhee, aiuta a
consolidare nel mondo la straordinaria fama dell’Isola degli Dei (“Una casa a
Bali”, Neri Pozza, 2004). Compositore e musicista di nascita canadese, Mc Phee
era giunto a Bali dagli States agli albori degli anni ‘30, all’apice
della sua carriera. Solo pochi mesi prima, nel 1929, a Manhattan, aveva
casualmente ascoltato da uno dei primi grammofoni mai esistiti la musica di un
gamelon, rimanendone folgorato.
Non poteva tuttavia sapere che, con la sua improvvisa decisione
di raggiungere Bali per approfondire gli studi sulla sua musica tradizionale,
avrebbe finito per diventare il cantore della creazione di un mito,
quello del paradiso perduto e ritrovato, nato da un gruppo di artisti e
intellettuali europei e americani che scelsero di vivere nella “Perla
dell’Indonesia” negli anni ’20 e ‘30 con l’illusione di fuggire al veleno della
civiltà moderna ed ai suoi venti di guerra.
A Ubud tutto è arte
Ancora oggi le strade di Ubud sono un laboratorio all’aperto: si
varca la soglia in pietra di una casa con l’immancabile divinità circondata da
offerte e si imbatte in artigiani e artisti che scolpiscono statue, dipingono
quadri, modellano figure con foglie di lontar intrecciate.
Le gallerie si susseguono una dopo l’altra, un mercato dell’arte
quotato a Londra e New York. Nelle viuzze minuscole librerie offrono volumi di
Huxley, Castaneda e Hesse. I ristoranti e le guest-house si affacciano sul
verde dei campi che al tramonto si tingono di sfumature rosate e su lagune
profumate di fiori di loto. Molte opere balinesi sono oramai pezzi da
collezione.
Come i quadri del surrealista spagnolo Antonio Blanco, che nella
sua casa museo ha aperto una scuola d’arte. I suoi quadri sono quotati migliaia
di dollari nelle gallerie d’arte di tutto il mondo. Blanco è uno dei più grandi
pittori surrealisti viventi, approdato a Bali negli anni ’50. Nella
spettacolare casa di Ubud, affacciata sul fiume Campuan, melangé di
architettura balinese e rococò
spagnolo, che ospita l’atelier e il museo con le sue opere più significative.
A Bali arriva dopo una vita piena di avventure cercando un luogo
che fosse per lui come la Tahiti di Gauguin. Vi arriva per caso, navigando nel
Sudest asiatico. Ospite nel Palazzo del re, si innamora fatalmente di Ubud.
Oggi, la sua splendida casa-museo è gestita dal figlio, anch'egli pittore.
L’artista ungherese Norbert Ivanyi è uno dei pittori di Ubud più
noti all’estero. Le sue opere sono esposte nelle gallerie di New York, Londra,
Sydney, ma anche nelle ville più prestigiose di Bali. Ma nei villaggi di Bali cresce la fama della designer Linda Garland
che è stata definita la regina del bambù. E’ rimasta incantata dalla leggerezza
e dalla resistenza della canna di bambù che può arrivare a 60 metri di altezza
e 25 cm di diametro. L’unica pianta che cresce più in fretta della sua ombra (3
cm all’ora) è per l’Oriente simbolo di gioia: negli ideogrammi cinesi il bambù
si piega in risate. In onore del bambù la stilista ha creato un’associazione no
profit, l’Evironmental Bamboo Foundation, che ne promuove crescita, diffusione
e uso. Lei stessa lo impiega per realizzare oggetti e mobili con i quali arreda
le sue case, che poggiano su tronchi di bambù e hanno tetti in bambù, ricoperti
di foglie di palma
Un chilometro dopo il ponte sospeso di Campuan, il mercante e
collezionista privato Suteja Neka ha fondato, nel 1982, un museo che raccoglie
il meglio dell’arte balinese. Come i quadri dell’olandese Rudolph Bonnet che
nel 1936, con il Pita Maha Group, guidò il rinascimento della pittura locale
dopo gli anni bui della conquista olandese. Bonnet, morto nel 1978, è l’unico
occidentale ad aver avuto l’onore della cremazione.
Un destino voluto
Se è vero che il linguaggio - come scriveva Heidegger citando
Rilke - oscilla tra la mano del mercante e quella dell'angelo, cioè dalla
rappresentazione del mondo come tecnica e come mercato alla sua
interiorizzazione spirituale, nel mondo attuale la bilancia è sempre più
saldamente in mano al mercante.
Ma è ancora possibile concepire forme espressive assolute,
svincolate da ogni funzione commerciale? Ancora oggi, nonostante una produzione
di arredi in serie sempre più omogenea, gli artigiani e i decoratori di Bali
continuano a creare oggetti con le più alte caratteristiche estetiche. Le
tecniche sono quelle di un tempo, ma le forme non hanno più confini stilistici.
Bali, come tutti i paesi con un'economia ancora relegata al
ruolo di terzo mondo, è vittima di fenomeni come quello dello sfruttamento del
lavoro, associato alla delocalizzazione delle grosse imprese manufatturiere, o
quello della dipendenza dal mercato del debito finanziario, ma oltre ai mali
che vengono da fuori, Bali al suo interno ha sempre nascosto un serpente,
proprio come il giardino dell'Eden.
Nel diciassettesimo secolo l'isola era nota per i sacrifici
umani e la schiavitù, e uno dei primi stranieri che la visitarono scrisse:
"I balinesi sono un popolo fiero, selvaggio, perfido e bellicoso". I
libri scritti all'inizio del ventesimo secolo, come Island of Bali del
messicano Miguel Covarrubias, dedicavano interi capitoli alla stregoneria.
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