lunedì 23 novembre 2015

L'ultimo delitto perfetto

Il testo seguente è il primo di una serie di articoli che avrei dovuto scrivere per una rubrica di cultura audiovisiva che si chiamava Terz'occhio.
Poi non se ne fece nulla, ma intanto il pezzo l'avevo scritto.
Era la primavera di quest'anno. Ora lo posto qua.
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Io ti ho messo al mondo! -
Una macchina che sa pensare e sentire!
E' come un bambino, deve imparare!
Stavo iniziando a scrivere questo articolo, quando non so da quale scheda aperta del browser web arrivano queste parole, recitate in stile Hollywood.  
Tutto quello che vuoi fare lo puoi fare!
Scrivere poesie, avere idee originali!
Trovo la scheda aperta e vedo un video con un ragazzo che sta parlando ad un robot di colore blue, che ha i lineamenti di un altro androide, il famoso C-3PO di colore giallo oro, quello di Guerre Stellari. Si tratta del trailer di Chappie, l'ultima impresa science-fiction della Sony & TriStar, appena distribuita nelle sale italiane dalla Columbia.


Caspita! -  mi dico - Avevo intenzione di iniziare a parlare del Delitto Perfetto ed ecco qua che si presenta un esempio calzante appena sfornato e perfettamente aggiornato!  Con Chappie si sta prepotentemente dando in pasto al pubblico giovanile l'ennesima favola tecnologica con pretese morali politically correct, in cui un giovane genio crea il robot perfetto, quello che non solo sa pensare e sentire, ma è in grado anche di raggiungere il top dell'essere umano, quello di creare!
La gente ha paura di quello che non capisce!
Il problema dell'intelligenza artificiale è che è imprevedibile!
Si sta sempre più decisamente tentando di compiere un nuovo delitto perfetto, l'uccisione dello status umano in favore della macchina.
Tu ci hai insegnato molto di più di quanto io potessi immaginare.
E' l'inventore che sta parlando a Chappie, un po' malconcio perché evidentemente le cose si son messe male per lui.
Questo robot va tolto di mezzo!
Ma è' un ragazzino!
Forse il prossimo gradino dell'evoluzione!
Ecco, l'hanno dichiarato apertamente!

Ma il Delitto Perfetto a cui mi riferivo, non è nemmeno il capolavoro di Hitchcock del '54. Parlo invece dell'indimenticabile testo dall'omonimo titolo, scritto nel 1996 in cui il filosofo francese Jean Baudrillard si chiede con ironica rassegnazione: la televisione ha ucciso la realtà? Ma era una domanda retorica. Il delitto è effettivamente accaduto, ora possiamo dirlo con certezza.

sabato 2 maggio 2015

Fernanda Pivano - intervista


Parlare di Fernanda Pivano da parte mia risulta abbastanza superfluo per quanta fama e conoscenza pubblica si ha dell'illustre ed appassionata traduttrice e studiosa di letteratura americana.

Forse più interessante è rievocare brevemente l'incontro che ebbi con lei in occasione di questa intervista che condussi all'inizio del 1987, quando ero impegnato alla realizzazione del programma di Rai RadioDue "Lo specchio del cielo", consistente in una serie di interviste a personaggi emblematici della cultura italiana, da me scelti per l'importanza che ebbero per la mia formazione culturale.

Ne ho già accennato a proposito degli altri intervistati raccolti in questo blog sotto il tag "Lo specchio del cielo".

All'epoca Fernanda Pivano per me rappresentava una sorta di mito vivente, essendo il suo nome associato ai migliori esemplari della letteratura della Beat Generation, di cui ero un entusiasta lettore. Appartengo alla generazione che non visse direttamente la stagione sessantottina, ma ne raccolse i sorridenti cascami durante i tardi anni Settanta del Novecento, quando si stavano già presentando le prime nuvole oscure del terrorismo nostrano, che avrebbero poi costituito, all'insaputa di tutti, gli esperimenti italioti di quel che sarebbe diventato il terrorismo internazionale dei primi anni del Duemila.

martedì 21 aprile 2015

Ida Magli - intervista


Quando penso a Ida Magli, illustre antropologa italiana, autrice di numerosi libri, tradotti anche all'estero, articolista di successo, tenace combattente contro la mostruosa creatura che l'Europa della tecnocrazia finanziaria è diventata, curatrice del sito Italiani liberi, che si impegna a difendere il contesto in cui i valori culturali, intellettuali, linguistici, territoriali, sociali e politici, danno senso e significato al fatto di essere italiani; quando penso ad un simile e forse unico esempio di tenacia intellettuale, non posso fare a meno di ritornare ai tempi degli anni '80, quando frequentavo le sue lezioni all'Università La Sapienza di Roma.

Tenute tre volte a settimana, presso la gloriosa Aula 1 della facoltà di Lettere e Filosofia, le cui pareti allora mostravano ancora tutti i segni iconografici della stagione sessantottina, ricordo che Antropologia Culturale fu una di quelle materie che inserii nel piano di studi, non tanto per ragioni programmatiche o contenutistiche, ma soprattutto perché la professoressa in carica era una di quelle menti vivaci che apriva la mente degli studenti, che usciva dal coro del regime culturale, che dimostrava un'originalità di pensiero tale da sollecitare quella di chi la seguiva.

Dopo aver chiuso, non senza timori e tremori, la frequentazione del biennio di ingegneria, imparai subito che per me essere all'università degli studi aveva un senso solo se vedevo in chi vi insegnava una persona che potesse contribuire alla mia consapevolezza personale e con la quale si potesse intraprendere un dialogo aperto di reciproca e fruttuosa collaborazione intellettuale. Infatti Ida Magli contribuì non poco alla mia formazione culturale, anche perché l'interdisciplinarietà del suo insegnamento, andando contro-corrente alla dirompente settorializzazione e specializzazione della ricerca intellettuale, rendeva possibile la costruzione di una visione della realtà di rara armonia.

venerdì 3 aprile 2015

Elémire Zolla - intervista


A distanza di tanti anni l'aspetto che più mi è rimasto impresso dell'intervista che feci a Elémire Zolla è stato l'incontro personale avuto con quest'uomo. In un appartamento, di cui ho visto solo l'ingresso e il salottino in cui siamo stati, nella zona di via Merulana, a Roma, vengo ricevuto direttamente da lui. Nell'aria un delicato profumo d'incenso, che ben s'intonava con i mobili etnici e i colori indiani della tappezzeria.

Non era stato semplice combinare l'appuntamento. Zolla è stato l'ultimo della serie dei dodici personaggi della cultura italiana previsti per il mio ciclo di interviste del 1987,  trasmesse la domenica sera da Rai RadioDue, intitolato Lo Specchio del Cielo. Erano quasi tutti nomi che avevano avuto una forte influenza nella mia formazione intellettuale ed universitaria fino ad allora. Avevo quasi concluso il ciclo e mancavano ancora un paio di nomi: Corrado Pensa e Elémire Zolla.

Il primo, allora ordinario di Filosofia e religioni dell'India e dell'Estremo Oriente presso La Sapienza, che mi aveva introdotto alla meditazione Vipassana, aveva gentilmente declinato l'invito e, da parte mia, conoscendo bene la sua riservatezza, non avevo insistito più di tanto. Il secondo, allora ordinario di Letteratura anglo-americana, in realtà grande conoscitore delle tradizioni sapienziali d'oriente e d'occidente, aveva fatto lo stesso tramite la moglie Grazia Marchianò, anche lei studiosa di filosofie orientali e che spesso mediava i rapporti del grand'uomo con l'esterno. Poi però qualcuno in Rai mi consigliò di proporgli un gettone di presenza, che in genere non era previsto per questo programma, ma dal momento che ero alla fine del ciclo e non avevo mai usufruito di tale mezzo, potevo permettermelo. In fondo si trattava solo di 500.000 lire. La cosa funzionò ed ottenni l'appuntamento.

martedì 31 marzo 2015

Memorie di un cane qualunque


Lilà era il nome che avevamo dato alla graziosa cagnetta che dalla metà degli anni Novanta ci accompagnava ovunque. Lila è il termine sanscrito che indica il prodotto creativo della divinità quando si è messa a giocare alla creazione del mondo. Ci piaceva molto questo nome che si conformava perfettamente alla saggezza e flemmaticità innate che la piccola e amata meticcia nera manifestava in ogni occasione. Orchidea,  la mia compagna di allora, oltre ad essere una donna molto bella e attrice cinematografica di fama, è una convinta animalista, molto attiva nella tutela dei diritti animali. Devo a lei tutte le mie conoscenze in questa ambito, oltre ad avermi fatto apprezzare le meraviglie che può donare l'intima confidenza di una vita in compagnia di 'un amico a quattro zampe'.

Tra l'altro per un paio d'anni avevamo lavorato insieme alla realizzazione del programma settimanale sugli animali di RadioRai che intitolammo: L'anello di Re Salomone, in cui lei conduceva e io curavo la regia. Erano anni che attendavamo l'opportunità di girare un film che potesse rendere onore a questo amore per Lilà e che avesse lei come protagonista. La giusta circostanza arrivò quando nel 2002 avevamo appena costituito una piccola società di produzione televisiva, Orchidea.com, e venimmo a conoscenza dell'intenzione di LegAmbiente Toscana di realizzare dei sussidi didattici per gli interventi nelle scuole in materia di diritti e gestione degli animali domestici. La Regione Toscana aveva infatti approvato un progetto regionale di educazione ad una sana e piacevole convivenza tra uomo e animali.

Proponemmo dunque un pacchetto di materiali consistente in un manuale cartaceo, che aveva per titolo "Randagio a chi?", un cd-rom e una videocassetta con il film: "Memorie di una cane qualunque", su nostro soggetto e sceneggiato da Toni Sangiuliano, eccellente musicista e geniale scrittore, nonché nostro caro amico, animalista convinto.

mercoledì 25 marzo 2015

La limatura dei denti nell'Induismo balinese


Nei dieci anni in cui ho frequentato l'isola di Bali ho raccolto molto materiale video relativo alla ricchissima ritualità religiosa ancora presente in questo luogo speciale. Bali è l'unica isola induista, delle oltre 17.000 di cui è composto l'arcipelago indonesiano, completamente islamizzato. Grazie alla sua storia e a questo isolamento religioso, l'Induismo balinese presenta caratteri così arcaici che non si ritrovano più nemmeno in India. Ne ho già parlato diffusamente nel lungo post riguardante il documentario sull'arte di Bali che ho realizzato nel 2008, La Fonte Balinese, quindi non mi soffermo a parlarne ancora.

Certamente c'è da sorprendersi della grande devozione degli abitanti nel seguire ancora con rispetto l'estrema complessità che questa ritualità richiede. Tra una cerimonia e un'altra, l'intera vita del balinese è costellata da un numero infinito di occasioni che ogni giorno, in ogni periodo dell'anno, egli è chiamato a rispettare.

Alla stregua del sacramento cattolico della prima comunione, l'induismo balinese richiede al giovane, durante la fanciullezza e comunque prima che si sposi, di sottoporsi alla limatura dei denti. Come altre cerimonie, anche questa è abbastanza costosa rispetto alle possibilità economiche concesse ad una normale famiglia. E' richiesta infatti la presenza operativa del bramino che deve essere pagato generosamente per eseguirla, oltre alla cura di tutto il contesto scenografico in cui si deve svolgere.

Tanto è vero che la cerimonia particolare presentata dal video che pubblico ora qui si riferisce all'ambito di una cerimonia più estesa durata oltre un mese, realizzata grazie al fatto che ben ottanta famiglia si sono riunite per ottimizzare i costi dell'operazione. L'intera occasione è quella che presento nel documentario I Veicoli dell'Anima, di cui ho pubblicato il trailer

martedì 17 marzo 2015

Alle porte del paradiso: la storia dei giubilei



L'anno 1527 viene ricordato come uno degli anni più tristi di Roma. Fu quando lo stato della Chiesa si trovò coinvolto nella contesa internazionale tra il Sacro Romano Impero di Carlo V e la Francia di Francesco I, il quale per limitare lo strapotere dell'imperatore si era alleato con Venezia, Firenze ed il papa. Fu questo il contesto politico che determinò la calata delle truppe mercenarie imperiali all'attacco dell'Urbe e delle sue sguarnite difese. Tra i 30.000 soldati di Carlo V, in gran parte luterani, c'erano oltre 14.000 lanzichenecchi, che avevano avuto la promessa di essere ripagati grazie al libero e dissennato saccheggio della città. Fu un episodio assai cruento, che si protrasse per oltre otto mesi, distruggendo i palazzi più ricchi, incendiando case e monasteri, violentando le donne, decimando la popolazione di oltre la metà.

E' questo l'episodio centrale della X puntata de "Alle porte del Paradiso: storia di pellegrini e di giubilei", quella dedicata al giubileo del 1550. Ero alla fine degli anni '90, nel '97 per la precisione, e già si cominciava a parlare insistentemente su giornali, televisione e radio del prossimo grande giubileo dell'anno duemila. Era tutto un pullulare di preparazioni, progetti a programmi a vario livello. Ricordo che l'atmosfera era molto particolare: con la morte ufficiale dell'utopia comunista, dopo il crollo dell'Unione Sovietica, era come se il cattolicesimo romano fosse ormai il principale beneficiario del vuoto ideologico creatosi. Tutti i commentatori e gli intellettuali che giravano in Rai si prodigavano, presso qualunque sede si trovassero, in genuflessioni e lodi sperticate alla straordinaria durata del potere della Chiesa.

A RadioUno, dedicata all'informazione giornalistica, alcune fasce orarie del palinsesto di trasmissione rimanevano ancora appannaggio dei programmi della rete, quindi svincolate dall'intervento diretto dei giornalisti e realizzate dai curatori interni, dai programmisti-registi e dagli autori esterni. C'era comunque Gianfranco Svidercoschi, stimato giornalista cattolico, amico personale di papa Wojtila, che aveva un influente rapporto di consulenza generale su tutti i temi legati alla presentazione del giubileo. Credo fu sua l'idea di dedicare un programma alla millenaria storia dei giubilei, a partire dal primo, quello del 1300 indetto da Bonifacio VIII, il protagonista del famoso schiaffo di Anagni, fino a quello del 1950: in tutto ventiquattro puntate di mezz'ora a cadenza settimanale, in onda il sabato alle ore 13.00, tra un giornale radio e l'altro.

venerdì 27 febbraio 2015

Puer Aeternus



Un altro programma di quell'esperimento radiofonico del 1990 che avevamo chiamato "Labirinti", trasmesso dalla sedicente "Radio Senza Frequenza" fu "Puer Aeternus". Anche questo programma è qualcosa di poco classificabile nel panorama tradizionale dei prodotti mediatici.

Rimando ai post precedenti (I sotterranei e Quadri sonori) per la descrizione del contesto in cui è inserito. Diciamo che il programma Puer Aeternus potrebbe essere assimilato da lontano ad un documentario radiofonico, ma potrebbe anche stare tra i radiodrammi. Di fatto non è rappresentato alcun documento originale, né c'è una sceneggiatura precisa, ma vuole proporre una serie di suggestioni musicali e letterarie che rimandano a questa figura archetipica dell'eterno bambino.

Da un punto di vista psicologico il Puer Aeternus è quell'uomo che conduce generalmente una vita provvisoria, dovuta alla paura di essere ingabbiato in una situazione da cui potrebbe non essere possibile fuggire. Carl Gustav Jung ne ha parlato nel suo studio "Archetipi e inconscio collettivo" e mette in evidenza la sua natura polare positiva-negativa:

da un lato l'eterno fanciullo appare come un bambino divino, che ricorda Eros, Hermes, Pan, e simboleggia la novità, la fantasia, il potenziale di crescita, la speranza per il futuro; d'altro lato rappresenta l'incostanza, il disordine, la stravaganza, l'istinto incontrollabile, l'essere posseduto dalla passione, il dongiovannismo.

L'interesse per questa figura mitica e modello psicologico, mi è nato quando ancora giovane scoprii che personalmente ne ero un classico esempio. Grande fu lo sconcerto che ebbi, io che credevo di essere un tipo assai originale, quando mi vidi descritto abbastanza fedelmente nelle caratteristiche che un'illustre studiosa junghiana, Marie-Louise von Franz, associava al Puer Aeternus, completando il quadro ambivalente descritto, anche quell'altro aspetto, che credevo davvero mio, di avere sempre la fantasia che in futuro la cosa immaginata si sarebbe realizzata da sola.

martedì 17 febbraio 2015

"I Sotterranei" di Jack Kerouac - L'adattamento radiofonico


Non esiste un metodo o una tecnica particolare per scrivere l’adattamento radiofonico di un romanzo o di un racconto. Non perché sia sempre così semplice, ma piuttosto per l'ampio spazio creativo che viene lasciato all'operatore.

Italo Calvino con la radio ha avuto una nutrita e fruttuosa collaborazione per anni. Ricordo ad esempio la sua celeberrima quanto esilarante "intervista impossibile" del 1974 con l'uomo di Neanderthal, interpretato da un grande Paolo Bonacelli che rispondeva alle domande dell'intervistatore Vittorio Sermonti. Per inciso, diciamo che le interviste impossibili rappresentano forse l'idea più geniale e proficua che sia mai stata realizzata nella storia della radio, capace di mettere in evidenza le qualità drammaturgiche del tutto peculiari dello strumento radiofonico.

Ebbene, nell'adattamento radiofonico si dà vita e forma ad un processo che Italo Calvino definiva come una sorta di  “cinema mentale che é sempre in funzione in tutti noi e non cessa mai di proiettare immagini alla nostra vista interiore". In effetti:
"durante la lettura di un libro, inevitabilmente ci creiamo l’immagine visiva della storia partendo dalle parole del testo che stiamo leggendo; tendiamo, cioè, a sceneggiare, a visualizzare, a collocare in determinati scenari gli eventi narrati, secondo il più o meno ampio repertorio di stereotipi che abbiamo a disposizione e con il quale colmiamo sottintesi, silenzi ed eventuali lacune del testo narrativo" (link)
Da un punto di vista registico, il primo termine di riferimento da prendere in considerazione nell'adattamento radiofonico è naturalmente il tempo che si ha a disposizione per mettere in scena il racconto, perché, qualora la durata del programma non rappresentasse un problema, allora si opterebbe per la sua lettura integrale, eventualmente dando risalto al valore dell'interpretazione ed al commento musicale e sonoro che potrebbe accompagnarla.

venerdì 13 febbraio 2015

Le ville di Bali



La villa esotica ai tropici. Un sogno per molti. Una realtà per pochi. E' vero!  Voglio sperare, però, che questa distinzione tra due umanità, particolarmente in voga oggi a causa della crisi in atto, non richiami unicamente il pensiero della disponibilità più o meno di denaro per potersi permettere tali lussi, ma piuttosto quello della limitazione che molti impongono a se stessi della forza di realizzazione del proprio sogno. Detto questo, veniamo a noi.

Tra il 2007 e il 2009 tentai, con la mia compagna, l'esperimento di sistemarmi a Bali. Era bello vivere in quell'isola e tutto aveva il profumo dei fiori e dell'incenso arso sulle offertine sistemate ovunque, mentre si era riscaldati dai sorrisi dei Balinesi e dai trenta gradi costanti del giorno. Erano anni che frequentavo Bali; i miei viaggi erano più o meno annuali e incentrati sull'ashram di Ratu Bagus, lo sciamano che mi ha insegnato a sentire l'energia.

Bali era diventata nel tempo la mia seconda patria, che offriva un ambiente multiculturale estremamente vario ed internazionale pur conservando quel carattere di primitività che salvaguardava il contatto umano e la ricerca di ispirazione artistica e contemplazione meditativa. Fu così che cominciai presto ad esercitare il mestiere, girando vari documentari sul maestro balinese e poi, approfittando del rapporto aperto che avevo con Rai Educational in Italia, avevo concordato vari altri documentari e servizi sull'arte e la cultura balinese, in particolare sul famoso "Bali Style".

lunedì 9 febbraio 2015

Fausto Antonini


Sono particolarmente legato a Fausto Antonini e non solo perché era una persona molto bella, profondamente empatico con l'altro, grande conoscitore dell'animo umano, intellettualmente onestissimo, esempio magnifico di coerenza tra vita e pensiero. Sono particolarmente legato a Fausto Antonini perché, grazie alla sua presenza su questa terra, quando avevo vent'anni, mi ha aiutato a fare una scelta di vita molto difficile e sofferta, quella di cambiare facoltà universitaria e passare da Ingegneria, per cui avevo già superato alcuni esami, a Filosofia.

Sono due strade di studio che aprono prospettive umane, sociali e professionali completamente differenti. Non c'è bisogno di spiegarne il motivo. Fin da piccolo ero stato educato in famiglia con l'aspettativa che diventassi ingegnere e, in verità, ero anche portato: bravo in matematica al liceo scientifico e grande passione per l'elettronica, che negli anni '70 stava rivelando le sue enormi potenzialità con l'invenzione dei transistors e dei circuiti integrati.

Sta di fatto che quando cominciai ad inoltrarmi seriamente in quel corso di studi, mi accorsi di avere interrogativi esistenziali così pressanti che agognavo in tutti i modi di affrontarli. Le lunghe ore di studio sui libri di fisica, chimica, analisi matematica, non facevano altro che acuire questa urgenza e farmi considerare la prospettiva futura di diventare un anonimo tecnico all'interno di un gigantesco meccanismo industriale come uno spettro orribile.

Ricordo che alternavo lo studio universitario con la lettura di libri di filosofia indiana, teologia cristiana e psicoanalisi. Ero anche un entusiasta ascoltatore di un programma che andava in onda su una tv locale in cui questo professore di antropologia filosofica, Fausto Antonini, parlava al telefono con gli ascoltatori con una schiettezza e profondità veramente suggestiva. Il mio ero un ascolto attento, analitico, registravo tutte le puntate e me le riascoltavo più volte finché non le avevo assorbite bene. Probabilmente ancora conservo da qualche parte le scatole piene di quelle cassette.

Al culmine della crisi, durante il secondo anno di Ingegneria, cominciai a marinare le lezioni e a rifugiarmi in Via Magenta 5, Roma, dov'era l'aula in cui Fausto Antonini teneva le sue lezioni ad una platea nella quale solo una piccola parte erano studenti. La maggioranza era gente normale, che ritagliava spazi sottratti al lavoro o alle cure familiari per abbeverarsi alla sua saggezza sagace, ironica e sempre molto coinvolgente.

Per farla breve, in capo a qualche mese, arrivai finalmente alla decisione di cambiare il mio destino, accettando anche la possibilità un giorno di andare a finire sotto i ponti, come accoratamente mi avvertiva mio padre.

Filosofo sui generis, emarginato dalla cultura ufficiale di allora, mopolizzata dai marxisti da una parte e dai cattolici dall'altra, Fausto Antonini, che aborriva qualsiasi genere di morale dogmatica, aveva coniugato da sempre la psicologia e la psicoanalisi con la filosofia. Egli sentiva che presto quelle due morali si sarebbero alleate, per creare quel grande super-io catto-comunista che ci avrebbe stritolati nelle maglie della repressione della vita.

I suoi grandi cavalli di battaglia teorici erano "il potere" e le sue mille sfaccettature, la repressione sessuale, il capro espiatorio, la ricerca della felicità, che lui sapeva inserire e descrivere con quella sua vitalità ed ironia, in qualsiasi dialettica intraprendeva, da quella cattedratica o quella nata dalla conversazione estemporanea con un ascoltatore al telefono.  C'è un suo vecchio allievo, Sergio Rizzitiello, che nel suo blog ha dedicato un omaggio a Fausto Antonini, riassumendone sinteticamente il pensiero e la bibliografia.  Non ho trovato altri riferimenti a lui su Internet. Per paura che questo unico contributo scompaia, lo inserisco anche qui in fondo al post.

Io sentii per la prima volta la voce di Fausto Antonini, che ero ancora un bambino, alla fine degli anni Sessanta, nel programma di Radio Rai "Chiamate Roma 3131", ascoltato in casa di mattina da mia madre; poi lo riscoprii durante le sue dirette su TVR Voxon, la tv locale romana di quando ero adolescente, di cui parlavo sopra, alla fine andai a trovarlo all'Università. Quando ero ormai inserito nel corso di studi filosofici, sostenni il suo esame, Antropologia Filosofica. Più che un esame fu una chiacchierata tra amici. Quando vide il mio grosso pacco di fogli con gli appunti di tutte le lezioni dell'anno, si stupì e scherzò dicendo che, chissà, forse un giorno, dopo che sarebbe morto,  qualcuno avrebbe scoperto il suo pensiero e fatto diventare famoso.

Nel 1987 quando ormai lavoravo in Rai da qualche anno, mi fu chiesto di realizzare il programma "Lo Specchio del Cielo": appuntamento settimanale della domenica sera con una sorta di autoritratto segreto di un personaggio importante del mondo della cultura. Per me fu l'occasione di andare a trovare alcuni miei cari e illustri professori universitari, con lo spirito di voler recuperare il vecchio rapporto interrotto, rinnovandolo su un piano di ruoli più paritetici. Non ero più lo studente, ma il professionista.

Mi sentivo cresciuto e mi piaceva confrontarmi con quei vecchi mentori che mi avevano tanto aiutato nel mio percorso di ricerca. Antonini fu uno dei primi che intervistai, poi ricordo fra gli altri Ida Magli, la mia relatrice di laurea, Mario Bussagli, grande guida sulla via della seta, alla scoperta dell'arte asiatica; Elemire Zolla, vero iniziato alla conoscenza esoterica e sapienziale, Fernanda Pivano, un mito che per chi come me amava la letteratura della Beat Generation; Namkhai Norbu; che allora era solo un lama tibetano, lettore all'Orientale di Napoli, ma sarebbe poi diventato il famoso fondatore di monasteri, come quello di Merigar, ad Arcidosso, sul Monte Amiata.

Ho già parlato del sito web della Rai che sta pubblicando i materiali radiofonici di quegli anni. C'è anche "Lo specchio del Cielo". Però non capisco la scelta redazionale, da parte di chi gestisce il sito. Hanno tagliato via almeno metà dell'intervista e poi l'hanno associata ad un altra che non ha nessun legame con la prima. Sicché in un unico file di un'ora troviamo due interviste una dopo l'altra, realizzate da due programmisti differenti a due personaggi differenti. Veramente un non-sense per un podcast downloadabile! Visto che non ci sarebbero problemi di spazio o di tempo, perché non offrire il programma integrale, univoco e consultabile con un criterio più intelligente? Sono i misteri dalla grande azienda pachidermica.

martedì 3 febbraio 2015

Present Moment, Wonderful Moment


Nella stagione 1992-93 ero impegnato nella regia del 3131, il popolare programma di Rai RadioDue, che in quell'anno era condotto da Paolo Restuccia e Gianluca Nicoletti. Trascorrevo tutto il tempo negli studi di via Asiago, la mattina per la trasmissione in diretta, il pomeriggio per la preparazione di quella del giorno dopo. Non di rado passavo anche dodici ore al giorno là dentro, ma non mi dispiaceva. Lavoravo con passione, il team redazionale era molto energico ed energetico e non mancavano le soddisfazioni di vedere gli effetti di un tale impegno.

Questo per dire soltanto che non avevo la possibilità di fare altro. Grande fu quindi la mia sorpresa quando la Signora Lidia Motta, capostruttura della rete, mi convocò per propormi di realizzare un documentario e partecipare come Rai al festival di documentari radiofonici "Prix Futura Berlin", che si svolgeva ogni anno nella capitale tedesca.

Ma come potevo fare un documentario in quelle condizioni? Come potevo star fuori, incontrare gente, raccogliere testimonianze? Sembrava veramente impossibile. Abituato all'idea che a tutto c'è sempre una soluzione, non mi tirai indietro, ma mi presi un po' di tempo per pensarci. A casa, in mezzo al mio archivio sonoro, che già all'epoca era piuttosto corposo, mi guardai intorno per vedere se mi veniva qualche idea.

Da anni raccoglievo le registrazioni dei discorsi dei maestri che conducevano i ritiri spirituali di Vipassana, la meditazione di origine buddista che seguivo fin dai tempi dell'Università, da quando cominciai a frequentare Corrado Pensa all'Istituto Orientale de "La Sapienza". Noto professore, allievo diretto del grande orientalista italiano Giuseppe Tucci, che lo precedette presso la stessa cattedra, fondatore dell'Ismeo, l'Istituto del Medio Estremo Oriente, Corrado, come affettuosamente lo chiamavamo noi studenti, affiancava l'attività universitaria all'insegnamento della meditazione sul respiro, che aveva approfondito e su cui si era specializzato tra l'altro presso l'Insight Meditation Society di Barre, Massachusetts.

sabato 31 gennaio 2015

Radio Senza Frequenza - LABIRINTI - Quadri sonori


Si era nel tempo in cui, da parte mia e di un paio di fraterni colleghi, si cercava di materializzare le più stravaganti e fantasiose trovate registiche per adescare il pubblico radiofonico e portarlo ad esperienze di ascolto che potessero coinvolgerlo principalmente a livello animico e spirituale.

So che, detto così, appare un intento programmatico molto ambizioso, soprattutto oggi.  Ma allora si era nel 1990 e noi tre ci permettevamo il lusso di sentirci ancora come quei Vagabondi del Dharma che raccoglievano ciò che era rimasto dell'onda lunga della rivoluzione culturale del Sessantotto.

Avevamo in mano un strumento, la Radio, sia in senso tecnico e artistico, sia  perché lavoravamo tutti e tre a RadioRai come programmisti-registi. Eravamo Mauro De Cillis, Maria Giuditta Santori e il sottoscritto e avevamo a disposizione il suggestivo studio di registrazione di Mauro, nelle viscere delle fondamenta del Pantheon, in pieno centro di Roma.

Insomma, perché non proporre un programma un po' alternativo alla normale radio che si sente in giro? Un programma che facesse dell'arte e della ricerca spirituale, il tramite simbolico per evocare spazi sonori che potessero effettivamente riverberare nell'interiorità degli ascoltatori.

Un programma che desse spazio ad una fenomenologia vibrazionale dell'ascolto in grado di stimolare un'esperienza fisica, proiettata in spazi di significanti poetici interconnessi in un universo di senso. Usando le parole, scritte, lette, cantate, recitate, mozzate e fraintese, associate in un elegante pastiche sonora che desse l'evocazione musicale dell'universo mondo con cui stimolare e diffondere Anima.




Eravamo tutti e tre ben stimati all'interno della struttura di Radio Rai, che si muoveva tra la produzione di via Asiago e l'amministrazione di Viale Mazzini, il famoso palazzo di vetro col cavallo morente in bronzo di Francesco Messina nell'isolato adicente.  La statua è il simbolo delle antiche comunicazioni umane che soccombono di fronte alle nuove tecnologie. Prospettiva quanto mai opportuna per poter sperare che qualcosa venisse accettato delle nostre spericolate sperimentazioni radiofoniche.

Fu così che cominciammo a trascorrere lunghe serate nello studio del Pantheon a scrivere, provare e registrare; soprattutto per trovare una formula che rivelasse un format adeguato e percorribile. Così nacque:
"Radio Senza Frequenza:
la radio che non trasmette da nessuno studio.
Il nostro studio è stata la mente, la vostra".

All'interno dello spazio di cotale radio c'era il programma "Labirinti", una sorta di contenitore di altri mini-programmi, ognuno con un suo filo logico originale ed autonomo. Come le carte dei tarocchi, i grappoli di programmi si succedevano l'uno all'altro, creando una sorta di estraniante gioco di specchi, in un avventura storico-culturale che attraversava stimolazioni emotivo-artistico-musicali ruotanti intorno ad un nucleo forte di non detto, ma suggerito da mille suggestivi dettagli formali.

Realizzammo due puntate del programma, di 45 minuti l'una. La prima fu un vero capolavoro! Secondo il giudizio di noi tre, naturalmente. Oltre a quei pochi intimi che poterono ascoltarla in cuffia con la dovuta attenzione, come in una sorta di meditazione. Lo facemmo ascoltare anche a un paio di dirigenti, oltre all'immancabile Signora Motta, dirigente della rete, di cui ho già parlato qui.

Ebbene, non ce lo fecero fare.

Troppo avveniristico, ci dissero.

Ed era vero! Tanto che fu un bene aver realizzato solo la puntata pilota come un unicum artistico in sé, piuttosto che vederlo spalmato su decine e decine di puntate, che era stato originariamente lo scopo della nostra proposta.

C'è da dire comunque che da quell'esperienza, in cui certamente rasentammo in molti momenti di lavoro il sacro e paradisiaco sentimento dell'assistere al miracolo della creatività in opera, arrivarono altre esperienze legate a questo prodotto, ma che si svilupparono in diverse direzioni. E poi col tempo in effetti ognuno di noi tre prese la propria strada professionale e personale.

Il brano che ho inserito ora su YouTube, accessibile anche qui, è l'ultimo dei tre mini-programmi che componevano il programma "Labirinti", all'interno del palinsesto di Radio Senza Frequenza. Il mini-programma si chiamava "Quadri sonori", ed esprimeva il tentativo di associare un audio a famosi quadri della storia artistica di tutti i tempi, dal Rinascimento, con Botticelli e la sua Venere, all'Urlo espressionistico di Munch, all'arte commercializzata di Andy Warol e la sua Marylin.

Proprio Mauro De Cillis, recentemente mi accennava all'esistenza di un gruppo musicale che ha realizzato lo scorso anno lo stesso concetto proposto da noi, quello di trasformare i quadri in musica. Bene! Che siano arrivati i tempi giusti!

mercoledì 21 gennaio 2015

Enrico Giardino e il Diritto a Comunicare


Ho conosciuto Enrico Giardino in Rai, nei primi anni Novanta. La sua intelligenza critica, la conoscenza approfondita del sistema globale della Comunicazione, a tutti i livelli, guidate da una rara sensibilità politica tesa alla libertà e la giustizia sociale, mi hanno subito conquistato. Nell'arco di pochi hanno di reciproca collaborazione, era diventato il mio maestro di politica, sebbene la sua impostazione provenisse dagli studi di ingegneria e dalla attività di sindacalista con larghe competenze nel marxismo scientifico, che non ho mai amato, vista la mia formazione filosofico-spiritualista-sciamanica. Grazie comunque ad un retroterra comune, basato sul grande rispetto della laicità che dovrebbe imperniare ogni discorso politico, il nostro rapporto è stato sempre scevro da incomprensioni.

La sua teoria del Sistema Integrato della Comunicazione, costruito sull'assetto costituzionale dello Stato e su quel concetto del Diritto a Comunicare, sancito dall'Unesco nel 1984 e disatteso per ora da tutte le democrazie del mondo (lasciamo stare i regimi totalitari, dove anche la Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo non viene accettato nemmeno sul piano formale) ci ha consentito di avere, se non altro, la capacità di leggere la realtà sociale, politica e mediatica in maniera scientificamente fondata e predirne puntualmente l'evoluzione già in epoca pre-globalizzatrice.

Fin dagli anni '90 Enrico e il sottoscritto ci siamo impegnati nel divulgare alla popolazione attraverso documentari audio e video la ferale notizia della brutta piega che avevano preso le cose. La deriva velocissima verso la dittatura, rispecchiabile perfettamente per esempio nell'andamento della gestione dei messaggi comunicativi  durante la propaganda di guerra del Kossovo.  Si era nel pieno della rivoluzione digitale e della ricerca di fonti ulteriori di promozione pubblicitaria tra le compagnie telefoniche che si erano scatenate ad accaparrarsi il maggior numero di fette di mercato.

Non sto qui ora a descrivere i parametri del Sistema Integrato della Comunicazione che Enrico Giardino ha concepito e che sono disponibii a tutti sul sito del Forum Interassociativo Dac. Essi sono in grado non solo di fotografare oggettivamente una situazione locale e globale con tutti i soggetti e i mezzi coinvolti nella comunicazione, attiva e passiva, tecnologica come interpersonale, ma anche di definire e proporre una riforma istituzionale che consideri la Comunicazione come potere formalizzato, all'interno del sistema dei tre poteri dello Stato, Esecutivo, Legislativo e Giudiziario.
Uno stato democratico costituzionale non può prescindere da regole e controlli del sistema della Comunicazione, in modo che si armonizzi con le risorse disponibili, in funzione della difesa del cittadino e degli spazi comunitari. 

Chi si occupa di documentari non può prescindere dall'aspetto politico che caratterizza l'ambiente culturale in cui si muove questo genere del tutto peculiare di informazione. Prima di tutto sul piano economico - produttivo, visto che non esistono strutture di distribuzione e televisioni che comprano i documentari, specialmente d'autore, e poi sul piano più politico, culturale e artistico. Ho sempre cercato di affiancare il mio lavoro personale ad un entusiasta e generosa attività di volontariato per aiutare le battaglie di Enrico, ma in effetti, queste lotte, come gli piaceva chiamarle, non hanno raccolto naturalmente alcun accoglienza presso i poteri piduistici che si andavano formando e consolidando in quegli anni e in tutti gli anni 2000.

Pochi mesi prima della prematura e improvvisa scomparsa di Enrico, avvenuta nell'ottobre del 2013, riuscimmo ad incontrarci a casa sua a Roma. Io avevo lasciato da anni la grande città e non ci era più facile frequentarci, ma l'amicizia e l'affetto ci ha sempre uniti, almeno attraverso il telefono. Facemmo così questa intervista retrospettiva sulle attività di una vita, quella che Enrico aveva passato in Rai, attraversando un po' tutte le fasi di trasformazione che l'Italia ha subito dagli anni '70 fino ad oggi.

L'intervista integrale sarà presto disponibile, anche in veste editoriale per i tipi della Contanima di Maurizio Andreanò. Qui ne presento un breve trailer, pubblicato sul mio canale YouTube.

venerdì 16 gennaio 2015

Radio Rai Web

http://www.rai.tv/dl/portaleRadio/media/ContentItem-03321c66-90db-47e5-bc21-6ece9f480101.html#

Ho inaugurato da poco in questo blog la pubblicazione di materiali provenienti dalla mia esperienza a RadioRai. Si potrà dire che dal mondo del documentario, oggetto principale di questo sito, al programma radiofonico ce ne corre di differenza. E' vero, ma non così tanta. Se si resta ancorati al dato sensibile è ovvio, la differenza c'è, intanto perché il primo è un audiovisivo e il secondo è solo un audio.

Ma andiamo oltre la superficialità di veduta e scopriamo che prima di tutto sono entrambi prodotti comunicativi con una base tecnologica; entrambi possono arrivare al cuore del fruitore; entrambi possono avere lo stesso concetto di regia, ovvero di filosofia e prassi della messa in scena.

Di fatto la Regia che ho imparato a fare dapprima nello studio radiofonico, si è rivelata poi estremamente efficace anche nel video. Ricorderò sempre la definizione della Radio che mi diede un regista della BBC un giorno del 1993 quando ero a Berlino, durante un concorso di documentari radiofonici. "La Radio - disse -  non è altro che una forma sofisticata di televisione".

Ecco, in questo senso la radio è molto ma molto più raffinata della televisione. Perché? Ma perché nell'ascolto delle sole voci, dei suoni, dei rumori, della musica, può, anzi deve, intervenire l'immaginazione dell'ascoltatore. Si tratta di un quadro visivo che si completa in una forma assolutamente originale, che mai nessun regista potrà mai realizzare. L'ascoltatore è più attivo, in tutti i sensi, sia intimamente che fisicamente. Quando ascoltiamo la radio possiamo muoverci, fare altre cose, piuttosto che dover restare in una immobilità catatonica di fronte allo schermo.

giovedì 15 gennaio 2015

Informazione d'autore


"Informazione d’autore". Sembra una contraddizione di termini. L’informazione parla di fatti. Un autore lavora di fantasia. Siamo sempre stati portati a credere che l’informazione non può intrinsecamente essere d’autore.

Da quando esiste il concetto moderno di informazione, questa è sempre stata concepita come il frutto di una prestazione professionale, cioè di un giornalista, che dovrebbe garantire l’”oggettività” della notizia, questo mito che rispetterebbe certi canoni tecnici sulla qualità dell’informazione.
Sono completamente in disaccordo su questa impostazione, poiché parto da una traccia completamente diversa. Un’informazione può essere data anche attraverso una sua elaborazione artistica.

L’osservanza delle famose cinque W della scuola giornalistica – Who, What, Where, When, Why (Chi, Cosa, Dove, Quando, Perché) – non è sufficiente ad elaborare una cronaca corretta. Piuttosto siamo davanti  ad una metodologia sistematicamente portata avanti per creare una procedura automatica disumanizzata, che nelle sue estreme conseguenze finisce col favorire un potere anonimo incontrollato. Il giornalista infatti sarebbe al di sopra delle debolezze umane. Egli si presenta come il traduttore distaccato di certi criteri oggettivi di lettura della realtà. Non sto parlando dei singoli giornalisti, ma della categoria stessa di Giornalismo.

E’ noto che è stata la tradizione anglosassone, quella che ha voluto codificare in questo modo le basi metodologiche su cui si è costruito l’odierno concetto di informazione giornalistica. L’ha fatto partendo dall’impostazione filosofica dell’empirismo inglese. Credere che un fatto sia un fatto e nient’altro che un fatto, per la semplice ed immediata evidenza che nasce dalla esperienza immediata, fa parte di quell’illusione di oggettività che ha condotto la società moderna alla crisi generale di valori che tutti stiamo subendo in questo momento.

In altre parole, si tratta dell’utopistica pretesa di escludere a priori il soggetto cosciente che osserva il mondo e, grazie al suo presunto distacco, esser capace di descrivere gli eventi col massimo dell’obiettività. Per questo si delega d una procedura tecnica esteriore, le cinque W, per escludere qualsiasi intervento parziale personale.

mercoledì 14 gennaio 2015

Emissione del denaro: strumento del potere



Ho estrapolato questo brano del mio documentario: "A Baby in the Woods: il sogno infranto di Ezra Pound".  Nel brano si parla del meccanismo alla base del potere finanziario, la creazione della moneta. Chi possiede tale facoltà ha in mano la leva principale di gestione del potere.

Da qui il discorso della commistione tra ruolo delle banche centrali e lo stato. Si tratta di un aspetto strategico per il tipo di governance da consegnare alla società. Il primato va dato alla politica sull'economia o viceversa?

Se ne parla spesso a sproposito di questa Europa verticistica e tecnocratica, in cui le banche dettano legge, mentre prima dell'Euro e del vortice globalizzante in cui siamo stati trascinati, le politiche nazionali potevano ancora contare qualcosa a livello di spesa pubblica. Ma questo primato della politica sull'economia che ha caratterizzato tutto il Novecento, era comunque all'interno di quella logica del debito.

Nella storia si è preso in giro i popoli con la nascita delle banche centrali. La prima fu la Banca d'Inghilterra nel 1694, l'ultima fu quella statunitense nel 1913.  L'ambiguità di fondo nel definire i loro rapporti con lo Stato ha reso possibile che alle prime venisse dato il potere esclusivo dell'emissione del denaro. Da allora lo stato deve indebitarsi presso le banche per essere finanziato, invece di finanziarsi da sé. Con grande beneficio delle dinastie bancarie, che mantengono nascostamente il controllo su tutta la società, a dispetto del regime politico, anche se democratico, che si svuota di ogni sostanzialità.

Come è noto Pound si avvicinò al mondo dell'economia grazie al pensiero di due economisti eterodossi: il maggiore Clifford Douglas, con l'istituto del credito sociale, e Silvio Gesell, con la sua moneta a tasso negativo emessa dallo Stato. Due autentici eretici dell'economia moderna, perché azzeravano, ognuno a modo proprio, quella truffa del debito che è alla base dei sistemi moderni.

Con straordinaria pervicacia e infinita ingenuità, Pound cercò di convincere i potenti di allora delle tragiche conseguenze che l'errore della moneta emessa dalle banche comportava. La seconda guerra mondiale prossima ventura ne prospettava un esempio. Chiese di incontrare anche Roosvelt, che naturalmente non lo ricevette mai. Però attirò troppo l'attenzione su di sé. Quando si presentò la buona occasione fu arrestato e condotto senza processo ad un manicomio criminale e vi restò per dodici anni.

Mi chiedo se oggi, grazie all'evidenza sempre più grande espressa dalla crisi economica odierna artificialmente creata in laboratorio; grazie alla conoscenza diffusa via internet su questo aspetto dell'emissione della moneta, possiamo iniziare a credere che la truffa del debito possa venir riconosciuta pubblicamente.

Oppure dobbiamo forse limitarci a sperare che le forze più progressiste, se esistono veramente, ci ripropongano di ritornare alla versione di Keynes, di un'economia controllata dallo stato. Non è il massimo, ma sarebbe già qualcosa.


sabato 3 gennaio 2015

Il sogno di Giordano Bruno


Nel dicembre del 1989 mi capitò di sostituire per alcune settimane Maurizio Ciampa alla conduzione de "Le Ore della Notte", programma contenitore della serata di RadioDue. Lo spazio in particolare si chiamava "Serata a sorpresa".

Ero fresco di laurea e ancora tutto permeato dagli studi di epistemologia, la disciplina che affronta i diversi aspetti della metodologia della ricerca scientifica. Nella mia tesi ero giunto alla conclusione che anche le teorie scientifiche, checché se ne dica, risentono fortemente delle circostanze storico-culturali in cui nascono e si sviluppano. Perciò il potere politico, economico e accademico ricopre molto spesso un ruolo determinante per il loro successo o la loro rimozione forzata.

Il programma radiofonico si occupava di temi piuttosto vari e con un approccio e un approfondimento sempre abbastanza impegnativi, sia per noi che lo preparavamo che per gli ascoltatori che dovevano recepirlo. Niente a che vedere con quel che accade oggi, ché certi argomenti o non vengono affatto toccati o se lo sono, vengono sistematicamente "normalizzati" dalla imperante visione giornalistica, fedele guardiana per antonomasia degli interessi dominanti.

Ma il tema che decisi di affrontare la sera del 7 dicembre 1989 era troppo anche per allora. Dar voce in uno spazio statale come quello della Rai, ai risultati eterodossi delle ricerche di due scienziati italiani circa la fondatezza della teoria einsteiniana della relatività, era qualcosa di sconvolgente per l'usuale prassi della comunicazione pubblica.

Allora la radiotelevisione italiana non si era ancora adeguata ufficialmente alla "par condicio" istituzionale, che imperò negli anni Novanta quando nelle redazioni si dovevano organizzare i programmi prevedendo sempre interventi di "esperti" contrapposti.

Doc Festival


Ci fu un anno, il 2006, in cui la redazione del programma Magazzini Einstein guidata da Maria Paola Orlandini, capoprogetto di RaiEducational, volle dedicarsi all'arte del documentario seguendo alcuni festival di documentari che si svolgevano in Italia durante l'estate.

Si scelsero quattro festival dislocati a nord al centro e al sud: Il "Brixen Art Film Festival" di Bressanone, il festival "Hai visto mai?" di Siena, che si inaugurava proprio in quell'anno, il festival di "Palazzo Venezia" di Roma e "Imaginaria06 International Film Festival" di Conversano, in provincia di Bari.

Visitai le quattro locations da regista scritturato, accompagnato dal solito modus operandi della produzione Rai, di cui ho già parlato in questo blog. Quindi in ogni posto veniva contattata una società locale per fornire la troupe. Per fortuna avevo una curatrice redazionale che mi seguiva ovunque, Valeria Muccifora, che mi aiutava ad omogeneizzare gli interventi.

Il risultato fu due puntate di mezz'ora dedicate al genere documentario: la prima, più generale, tentava di fare il punto sulla realtà di quest'arte oggi in Italia e ne veniva fuori un quadro piuttosto sconfortante. Si intitolava "La Terza Via", ne ho già parlato, e potetti seguire un montaggio abbastanza originale, cioè più personale.

La seconda era cronicistica ed entrava nei particolari dei quattro festival scelti. il titolo era "Doc-Festivals", un altro prodotto dignitoso dello standard Rai, che può lasciare soddisfatto l'utente medio ma non certo chi ricerca qualcosa di interessante o specifico. Al lettore lascio il giudizio.